Hotel Gagarin – La vita ricomincia ad Est…

“Se vuoi essere felice comincia..!” , lo disse il grande Tolstoj ed è una frase che  acquista un valore simbolico che va ben oltre la narrazione nel momento in cui viene pronunciata da uno dei protagonisti Giuseppe Battiston. L’ Hotel Gagarin  dell’esordiente Simone Spada , premiato meritatamente con il David di Donatello è una sfida narrativa ma anche produttiva per lo stesso cinema italiano che vorrebbe per l’appunto tornare ad essere felice.

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Spesso ci si è interrogati sulle problematiche che affliggono il cinema nostrano fra copioni che ruotano intorno agli stessi dilemmi esistenziali, la mancanza di una distribuzione adeguata e che colpisce i volti meno noti e in generale una mancanza di stimoli o elementi distintivi di una cinematografia che al di là delle competenze sembrerebbe fin troppo “omogeneizzata”.

Ebbene se vuoi essere felice comincia. Riparti dai pochi elementi che hai.

Questo sembrerebbe essere il suggerimento che arriva in maniera postuma dalla penna di un Tolstoj che non ha mai avuto certamente il problema di trovare una storia da raccontare.
                                                                                                                           Hotel Gagarin -  La vita ricomincia ad Est...
Allora si riparte nuovamente in un nuovo viaggio di sperimentazione dove la vita e il cinema stesso ricominciano ad est. E per lo più da una delle località più impervie e nel pieno di una stagione invernale e una guerra civile come l’Armenia.
E tutto ha inizio con un impianto narrativo classico e di stile pirandelliano dove in questo caso cinque personaggi, non solo in cerca d’autore sono in cerca di riscatto e di una rivincita su una esistenza professionale e non,  senza più sussulti né apici. Una specie di personificazione quindi del cinema stesso che cerca in un nuovo contesto la sua rivincita e nuove fonti di ispirazione se vogliamo.

Si parte dal lungo Tevere per arrivare in una steppa per la promessa di un produttore che si volatilizza col capitale mentre gli eserciti bloccano la strada davanti all’unico hotel che ospita una improbabile troupe che pur nelle sue contraddizioni e dilemmi ci vorrebbe mettere il cuore.

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Sembrerebbe già una specie di cul de sac senza più sviluppo. Niente soldi. Niente film.

Ed è qui che Spada cala il suo asso giocando sulle tensioni vissute fra quattro muri di questo strano neo-Overlook Hotel,  ma stavolta senza un Jack Nicholson in preda ad allucinazioni ma solo cinque persone in preda ad un passato che ancora pesa e che non si vuole riaffrontare qualora il rientro in Italia fosse reso possibile (e inevitabile).

“Hotel Gagarin” quindi diventa il pretesto per rimettere in gioco il destino di cinque protagonisti , partiti con un obbiettivo ed ora messi di fronte ad una nuova opportunità tra cui (forse) essere nuovamente felici con poco.

E senza alcuna voglia di svelare ulteriori retroscena si può però pensare ad una situazione in stile Buzzati che nel 1991 venne percorsa felicemente anche con il “Mediterraneo” di Salvatores. Vale a dire come nel “Deserto dei tartari” di Buzzati , provare a chiudere i protagonisti di un proprio soggetto all’interno di un contesto lasciando che si perdano al loro destino mentre fuori un mondo va avanti indisturbato con i suoi ritmi e con i suoi problemi.
Hotel Gagarin quindi diventa un microcosmo con intenti e tempistiche che valgono solo per i cinque protagonisti e incredibilmente per dei cittadini del villaggio vicino che solo per l’arrivo di una troupe vedono anch’essi una nuova via di uscita da una routine che prevede solo inerzia e silenzio fra uno scontro fratricida e una tregua.
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Il cinema è il filo conduttore che fa da vero elemento di aggregazione ma questo film di Spada è un esempio ulteriore di “meta-cinema”. Un film sul cinema in cui si ricomincia a vivere e produrre in un nuovo qui ed ora. Senza i fasti e le fortune cominciate dalla dolce vita degli anni ‘ 50 , senza i canoni della commedia all’italiana degli anni ’60 e senza gli impianti narrativi costruiti ad hoc per spingere l’Italia alla Notte degli Oscar per la fatidica statuetta quale Miglior film straniero.

Nel silenzio della stagione invernale armena la lezione è semplice : “se vuoi essere felice , comincia…”.

Senza se e senza ma. Il risultato quindi è un film sincero e senza grosse ambizioni ma come opera prima è già una riflessione profonda di valore ambivalente fra l’esistenziale e l’artistico ed oltretutto in un contesto totalmente inedito dove anche la scelta di una location lontana o insolita diventa lo stimolo per raccontare qualcosa di nuovo e di conseguenza con implicazioni narrative nuove. E con implicazioni che a livello di narrazione sono mostrate dal rimescolamento nei destini dei cinque personaggi stavolta in cerca di una nuova storia di vita da vivere e raccontare.

E per un obiettivo giocato su più livelli Spada si affida ad una simpatica armata brancaleone fatta di riconferme e di volti di esperienza consolidati in primis la simpatica ex canaglia di Claudio Amendola e il già citato Giuseppe Battiston, capo spedizione e regista della situazione.

Un alternativo Luca Argentero ormai depurato  totalmente dagli esordi televisivi del passato e piacevolmente alternativo. Il fascino glaciale di Barbara Bobulova e la nota trucida di Silvia D’Amico.
Nota di merito e presenza d’autore per un Philippe Leroy che stavolta rappresenta la personificazione del buon senso, della esperienza e della ispirazione creativa per un personaggio in bilico fra realtà è finzione.
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In 93 minuti ci sono gli elementi per distrarsi un po’ senza necessariamente rivoluzionare da subito i canoni del cinema italiano.

Se non altro è un principio interessante di “crossover” dove la tradizione narrativa italiana incontra quella europea. E dove in futuro si prevede magari anche un crossover di tipo produttivo fra know how e competenza italiana che incontra quella europea e mondiale.

Intanto si comincia subito e si parte da Est. Non solo per sopravvivere artisticamente ma soprattutto per essere felici.

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