"Tutto il mio folle amore" - Road movie alla ricerca di Felicità e Genitorialità

 

La felicità non è un diritto, la felicità è una botta di culo“.

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Con una frase emblematica e decisiva di Abatantuono , fido compagno di avventure disseminate fra Mediterraneo, Tournée per l’Italia e sogni futuristici alla ricerca del Nirvana, ritorna un Salvatores che ci tranquillizza sul suo stato di salute cinematografica con un film praticamente manifesto di filosofia sulla ricerca della felicità e della “genitorialità” perduta. Un inno alla vita dove le famiglie si ricompongono oppure arrivano a compiere scelte determinanti lungo una autostrada che poi rimane la metafora stessa della esistenza.

Il Salvatores d’esperienza torna con la formula classica del “road movie“. Ma stavolta lo fa con un pizzico di maturità in più e uno spirito registico che nella cura minuziosa della resa fotografica e il lavoro con pochi attori (ma oserei direi più che buoni) rivela ancora un passione profonda per il mestiere.

Ma attenzione, non è manierismo. Non è esercizio di stile. Si può crescere cinematograficamente ancora molto , abbandonando la sceneggiatura originale per ricorrere alla rilettura di importanti opere letterarie come in questo caso.

 

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Liberamente ispirato al romanzo “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas che racconta la storia vera di Andrea e Franco Antonello, padre e figlio autistico che hanno fatto un lungo viaggio in moto in sud America, “Tutto il mio folle amore” cambia solo il contesto e in una sola ora e mezza riesce a condensare eventi e incontri lungo la strada senza risultare frenetico o sbrigativo davanti ad una tematica delicata che darebbe ben più di un grattacapo a qualunque regista , esordiente o veterano che sia.

Non ci sono piagnistei né una visione spettacolarizzata di un rapporto giocato in questo caso fra padri e figli che si basa su pochi sguardi e dialoghi che sembrano tutt’altro che recitati ma pieni di spontaneità e quella italianità distante da un Rain Man edulcorato di una accoppiata inedita ma patinata all’hollywoodiana come Hoffmann e Cruise.

Merito in questo caso di un Claudio Santamaria ormai esperto e grande performer canoro nella parte del cantante soprannominato “Willie boy” alias “Il Modugno dei balcani“che ricompare dopo sedici anni nella vita del figlio autistico, Vincent, interpretato dell’esordiente Giulio Pranno.

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Un giovane voluto insistentemente da Salvatores che vince anche questa scommessa. E pur non essendo Di Caprio in “Buon compleanno Mr.Grape“, però ci va molto vicino e guadagna una credibilità assoluta che speriamo di rivedere nel proseguo di una carriera che parte con questo gioiello salvatoresiano in compagnia di altri grandi nomi come il già citato Abatantuono nel ruolo del padre adottivo e una Valeria Golino che ci regala come sempre una interpretazione basata su esperienza e delicatezza di un tono di voce e gestualità leggere.

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Pochi nomi ma buoni per una tournée che il cantante Willie Boy deve concludere nei Balcani fra frontiere presidiate, balere, concorsi di ballo, un circo e addirittura un matrimonio in piscina fra sguardi persi nel vuoto ed estasi ed un accompagnamento musicale del grande Mondugno reinterpretato da Santamaria che non fallisce questo appuntamento di grande visibilità. Momenti degni di un Fellini che nei tempi d’oro era capace di accompagnare lo spettatore fino a finali stralunati e totalmente distaccati dalla realtà come tanti personaggi stralunati e differenti fra loro che guardano una spiaggia o una vallata.

Salvatores compie un percorso similare portandoci in questo viaggio fra autostrade nella notte dove i due protagonisti vagano in motocicletta con cadute tragicomiche per poi trovarsi attorno ad un falò con hippie Italo croati a parlare di poesia in lingua autoctona e baratti , senza sapere come sarà il domani.

E nel frattempo si ricucisce magicamente un rapporto padre-figlio dopo una ellisse esistenziale e di racconto di circa sedici anni. Senza prolissità e senza episodi fuori posto. Basta solo una cantata in compagnia nelle vallate fra Slovenia e Croazia mentre la coppia dei genitori effettivi di Vincent sembrano inseguire le orme del figlio scomparso.

 

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O magari stanno solo cercando il proprio equilibrio messo a dura prova da impegni di lavoro e pagine da leggere e valutare dall’Abatantuono che da editore, legge e cita sceneggiature durante tutto il corso del film. Un altro omaggio voluto da Salvatores alla settima arte e che viene espresso al meglio dal fidato Diego che sa ritagliarsi i suoi giusti spazi in maniera matura e distante dall’istrionismo del passato.

Croazia e Slovenia fanno da contorno senza diventare necessariamente spot o cartoline volute dagli enti del Turismo locali. Al contrario dominano tramonti e albe fotografate da un altro veterano della policromia nel cinema italiano come Italo Petriccione.

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Fa piacere quindi riscoprire un trattato di filosofia di vita , felicità e genitorialità dove con pochi elementi ritroviamo un amico della macchina da presa con il tema che gli è più caro, quello del viaggio inteso come cambiamento , oppure momento clou per risolvere situazioni e compiere scelte lasciate in sospeso. Tema ricorrente ma con la consapevolezza di andare a fondo nella caratterizzazione dei protagonisti , che seppur pochi , non meriterebbero di finire nella solita macchietta o in un intreccio fin troppo banale. E difatti il risultato è estremamente maturo e soppesato da meritare una menzione speciale in questa fase di maturità avanzata della cinematografia di Salvatores , di cui si deve ammirare il coraggio anche di essersi misurato con la fantascienza e l’adattamento all’italiana degli ultimi due capitoli della sua esperienza registica, dedicati al “ragazzo invisibile“.

 

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Senza voler spoilerare poi , Tutto il mio folle amore ha la forza di lasciarci con interrogativi sacrosanti che non hanno mai smesso di evolversi con il cambiamento stesso della società moderna.

Di chi sono realmente i figli? Di chi li mette al mondo o di chi ne segue il percorso di vita quotidiano? Su chi ricade la responsabilità del punto di riferimento fra padre e madre o addirittura genitore adottivo , subentrato negli anni ? Forse si discute troppo in questo mondo moderno fra la distinzione scientifica e le nomenclature esagerate fra genitore 1 e genitore 2 , e intanto ci si dimentica dei sentimenti che scorrono profondi e si perdono per poi ritrovarsi così per caso dopo sedici anni e poi partire per un folle viaggio in moto. Folle, eppure travolgente come l’amore stesso.

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L’amore che non si può distinguere ne’ catalogare fra genitore naturale o genitore adottivo. O che magari viene soppiantato e sostituito per gli occhi dei figli da un solo amore invalicabile e per l’appunto insostituibile , che è quello della madre.

Interrogativi che rimangono e ritornano con maggior vigore grazie ad una pellicola che riesce ad emozionare, regalare immagini di purezza e stile e abbozzare anche un sorriso di complicità in questo gioco di fascinazione fra autore e spettatore.
Pandemia o meno, il cinema e la vita ne escono vincitori.

Di Simone Sollazzo

 

 

“Tutto il mio folle amore”

 

Genere:Drammatico

Anno:2019

Regia:Gabriele Salvatores

Attori:Claudio Santamaria, Valeria Golino, Diego Abatantuono, Giulio Pranno, Daniel Vivian, Maruša Majer, Tania Garribba

Paese:Italia

Durata:97 min

Distribuzione:01 Distribution

Sceneggiatura:Umberto Contarello, Sara Mosetti

Fotografia:Italo Petriccione

Montaggio:Massimo Fiocchi

Produzione:Indiana Production Company con Rai Cinema ed EDI Effetti Digitali Italiani

 

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