Una foto che resta nelle menti di chi la guarda, un semplice ritratto che diventa un’icona: questo è il lavoro di Steve MC Curry, un fotografo che oggi chiunque conosce o ha sentito nominare. Magari non è noto il suo viso, come i protagonisti delle sue opere, però nessuno scorda quell’immagine che scattò in Afghanistan, “the Afghan girl” del 1984, comparsa sulla copertina del National Geographic, di cui colpisce lo sguardo intenso della dodicenne ritratta, coperta da un tessuto sporco, malconcio, da cui escono vivi, spaventati, quegli occhi incredibili.

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Prosegue fino al 29 aprile la mostra di Steve Mc Curry al Macro Testaccio di Roma, dove si è voluta ricostruire la storia di questa ragazzina, ormai donna adulta, ed esporre un percorso tra le  immagini di Mc Curry: una raccolta di 250 fotografie che comprende, per la prima volta in mostra, anche l’ultimo rullino Kodachrome, dopo la decisione del ritiro dal mercato da parte di Kodak, utilizzato dal fotografo fra gli anni 2009-2011 in 32 scatti. Questi ultimi ritraggono Birmania e Thailandia. E’proprio l’intenso sguardo della ragazza afghana – Sharbat Gula, ritratta nel campo profughi di Nasir bagh, Peshawar, Pakistan – ad aprire la mostra di “Steve Mc Curry” al Macro, che altro non è che un luogo recuperato da un ex mattatoio. Sharbat era una sconosciuta, ritrovata dopo ben 17 anni nel 2002 dallo stesso fotoreporter e il team del National Geographic. All’ingresso del museo si può visionarne il filmato, in cui, dopo complicate ricerche in Afghanistan, Mc Curry riconosce gli occhi verde smeraldo della donna ed afferma: “La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa”.


Gli altri due video invece riguardano l’utilizzo di tecniche di digitalizzazione delle foto e delle stampe fotografiche eseguite da Mc Curry e la consegna dell’ultimo rullino Kodachrome.
Da qui comincia la mostra fotografica vera e propria:  all’entrata si trova un eccezionale mosaico composto da migliaia di fotografie che ricrea l’immagine della ragazza afghana. Le immagini spiccano nella struttura del Macro – La Pelanda, somigliante ad un insieme di moderne cupole in materiale plastico trasparente, in un allestimento di Fabio Novembre, architetto e interior designer,il quale afferma: “C’è la vita e c’è la morte nelle foto di Steve, e quel breve o lungo percorso che le unisce; come il percorso e il senso stesso di questa mostra che porterà gli stessi visitatori ad essere nomadi per scelta, pionieri per necessità …”


L’allestimento vuole rifarsi all’idea del campo profughi, c’è l’idea sottostante di un campo nomade suddiviso in molte unità, che si susseguono e concatenano fra loro. Anche le tematiche delle foto, accostate per analogia e/o in altri casi per luoghi, che vogliono far notare le differenze tra diversi paesi , hanno in ogni caso un legame evidente fra loro all’interno di ogni cupola, dando vita ad un interscambio osmotico. In questo modo si  realizza un dialogo a partire dalla storia degli anni ottanta ad oggi: vita, drammi, guerre, lotte, gioia, quotidianità, rabbia, sorpresa, tutto sotto questo moderno campo tendato  a dar loro un rifugio.


Le fotografie scattate per i 150 anni d’Italia invece non convincono completamente, forse ancora foriere di luoghi comuni sul Belpaese, ad esempio il classico ritratto d’un siciliano con la coppola o gli scatti dal tema religioso quali le processioni nei paesi del Sud.
La mostra è un viaggio intorno all’umanità nei suoi più vari aspetti, che a volte risultano sconvolgenti, evidenziando i contrasti di una società occidentale nei confronti del mondo orientale e non solo.  Il fotografo da vita al suo lavoro ponendo lo sguardo dei volti come specchio del mondo.

Si dice che Mc Curry riesca a rubare l’anima delle persone che ritrae, ed in effetti è proprio questa la sensazione che coglie il visitatore. Steve spiega così il suo modo di fotografare: ”Ho imparato ad essere paziente. Se aspetti abbastanza le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te”.

Di Luisa Galati

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