Il sesto film di Nuri Bilge Ceylan, “C’era una volta in Anatolia”, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes, ora nelle sale, è un’autentica sorpresa. Misterioso. Cupo. Insondabile. Molto diverso dai precedenti. Ceylan si conferma come uno dei rari poeti del cinema mondiale.

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Si tratta di un giallo in cui effettivamente sembra non accadere nulla di particolare, ma dalla grande forza emotiva: Repubblica lo definisce un “thriller poetico”.

Un gruppo di poliziotti insieme al procuratore e un coroner, guidati da un assassino, sono alla ricerca del luogo di sepoltura sommaria di un cadavere. Di qui ci ritroviamo alla fine di un ipotetico racconto, mentre i protagonisti svelano pian piano i fatti antecedenti ed il quadro comincia a farsi più chiaro.

Nel corso di questo “viaggio” emergono gli indizi di cosa è davvero accaduto. La spettacolare fotografia di Gokhan Tiryaki sublima le immagini del volto dell’assassino, gli sguardi dei poliziotti, le incredibili scene notturne ma soprattutto la lunga parte ambientata nella steppa turca. La steppa racchiude i silenzi e i dubbi, nella sua sconfinata oscurità durante la notte. Una singola scena vale la visione del film, quando i protagonisti si trovano alla festa in casa del sindaco e c’è un blackout: all’improvviso appare una figura femminile dal volto di una bellezza senza tempo rischiarato dalla luce di una candela. Subito dopo la ripresa si sposta sulla bellezza riflessa negli occhi degli uomini, i cui sguardi rimandano ai sentimenti di desiderio, alla loro storia, alla natura della vita, ai rimpianti, ai rimorsi, alla speranza o alla disperazione.

Il lungometraggio è suddiviso in tre parti, in ognuna delle quali è preminente il punto di vista di uno dei personaggi: l’assassino con la sua intensità e i silenzi, il procuratore, che ha indagato su molti delitti ma che non ha mai avuto il coraggio d’investigare sulla morte della moglie, e infine il medico, incapace di vivere serenamente.

Come a ricordare le antiche tragedie greche, sviluppa i tormenti individuali di persone comuni che svolgono il loro mestiere, in questo caso, durante una convivenza forzata. Eppure, sebbene non abbia un che di memorabile, il film incanta con la sua bellezza seducente.

La steppa racconta. Tutti i casi verranno chiusi ma non risolti: quindi nessun colpevole e nessun innocente. “Once upon a time in Anatolia”, opera dalla durata notevole e dall’ascendente vivo, continua ad affascinare e a porci domande.

Di Luisa Galati

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