La città di Venezia, unica per il suo genere e praticamente intoccabile a livello architettonico, ospita questa fucina di nuove idee su come gestire ed interpretare gli spazi. La kermesse è diretta da David Chipperfield, che spiega: ”Il tema centrale di questa Biennale è ciò che abbiamo in comune. L’ambizione di “Common ground” è soprattutto quella di riaffermare l’esistenza di una cultura architettonica costituita non solo da singoli talenti ma anche da un ricco patrimonio di idee differenti. Siamo partiti dal desiderio di enfatizzare idee condivise aldilà della creazione individuale: questo ci imponeva di attivare dialoghi piuttosto che selezionare singoli partecipanti”.
Sulla facciata del padiglione tedesco si legge a caratteri cubitali: “Reduce, reuse, recycle; all’interno sono esposte delle gigantografie con alcuni esempi di riutilizzo del patrimonio edilizio preesistente. Il percorso espositivo è realizzato con vecchie passerelle per l’acqua alta, a concreta dimostrazione del riutilizzo delle risorse. Nel padiglione Russia si cambia registro: l’atmosfera è iper-tecnologica, alla “2001. Odissea nello spazio”. All’ingresso vengono forniti degli I pad con i quali è possibile inquadrare gli innumerevoli codici QR disseminati per il padiglione a cupola, che si traducono in foto, video e rendering dell’ I-city di Skolkovo, futura città dell’innovazione che sarà creata in Russia, grazie alla partecipazione di architetti di tutto il mondo ( compresi Chipperfield, Herzog & de Meuron e Stefano Boeri). Questa cos’è se non la radice del “Common ground”? Un terreno comune, un comune sentire, per una realizzazione in “comune”. Common ground rivela un’insita speranza, per la ricostruzione di una nuova identità della figura dell’architetto, dell’architettura e dei progetti. Un’utopia che si fa sempre più reale, forse.
Di Luisa Galati