«Se non riuscite più a sentire la vita che c’è in voi, probabilmente cercherete di riempire la vostra quotidianità di cose.» (Eckhart Tolle, Un nuovo mondo, II, Mondadori, pag. 41).
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All’età di ventisette anni ho accettato un lavoro alle assicurazioni. Che altro potevo fare? Avevo accumulato qualcosa come un centinaio di lettere di rifiuto provenienti da tutti gli editori italiani e cominciavo a perdere le speranze. Ed eccomi qua, a tu per tu con la vita «vera». Tutte le mattine imbottigliato nel traffico, telefono cellulare nella tasca interna del vestito grigio o gessato, e una sfilza di appuntamenti in agenda. Intorno a me, colletti bianchi inamidati, teste calve, colli stretti nei cappi delle cravatte. Intorno a me, uomini e donne che imprecano, chiusi in tante scatolette di marca Fiat, Audi, Lancia, Alfa Romeo, Bmw, Mercedes, Citroën, Opel e Ford; che sgasano e scalpitano, irrequieti come tori, ansiosi di entrare nell’arena, smaniosi di gettarsi nella mischia; che lanciano le automobili nelle rotatorie come aerei di kamikaze in picchiata; che fanno saettare di qua e di là occhi avidi di parcheggio, occhi di chi sarebbe pronto a uccidere per un parcheggio… e per la prima volta nella mia vita sento di far parte di tutto questo.
In ufficio, giovani rampanti che vogliono imparare le leggi del mercato per affondare in esso i denti aguzzi e succhiarne il sangue come insaziabili vampiri con gli occhi del colore dei soldi. Padre nostro che sei quotato in borsa, dacci oggi le nostre provvigioni quotidiane e non indurre in rosso il nostro conto in banca, ma liberaci da tutte le inflazioni, amen. Denti bianchi, sorrisi smaglianti, facce abbronzate artificialmente. E io marcio con loro su marciapiedi freddi di menzogne. E io marcio con loro vestito di nero come un giovane killer – una valigia piena di polizze vita, morte, danni, infortunio, furto e incendio, la bocca piena dei loro slogan, la mente ingolfata di clausole, numeri, dati statistici, pacchetti assicurativi per la persona, per l’azienda, per il cane e per il gatto. Ti assicuro la macchina, ti assicuro la casa, ti assicuro la ditta, ti assicuro il negozio, ti assicuro le tette, il naso, la voce, la fica. Ti assicuro il culo in modo che tu non possa mai ritrovarti col culo per terra.
Per quasi un anno, vendo assicurazioni – su appuntamento e porta a porta. Guadagno anche benino, per essere un novellino, e di sicuro quell’esperienza mi aiuta a uscire dal guscio, a tirar fuori la mia parlantina e a rapportarmi con le persone in maniera più matura e disinvolta. Ma non è ciò che desidero fare della mia vita e dentro di me non sono in pace, tutt’altro. Non a caso, in questo periodo, non faccio che comprare cose: abiti gessati o a tinta unita (che sono l’uniforme dell’assicuratore), cravatte di Valentino, camicie di Hugo Boss, jeans di Cavalli, e anche cd, dvd, libri che non ho tempo di leggere… È come se avessi bisogno di una compensazione, come se l’acquisto smodato di capi d’abbigliamento e prodotti di vario genere sopperisse a un’insoddisfazione di fondo.
L’agenzia presso la quale sono impiegato ha sede a Parma, in un edificio del centro, e dalla finestra osservo il viavai della gente, l’agognata libertà, tutte quelle donne. Mi viene in mente una cosa che ha scritto André Breton: «Non serve a niente essere vivi, se bisogna lavorare.»[1]
Ogni tanto penso di mollare il lavoro e di farla finita una volta per tutte con le pacche sulla schiena del gran capo, con i clienti diffidenti, con gli appuntamenti e i bidoni, con tutta quella burocrazia che non ho mai sopportato (e chi sa come ci sono finito in mezzo), con le pratiche, le arringhe per strappare uno straccio di firma, gli assicuratori dalle mani sudate e le buste paga. Per carità, niente di male in tutto questo. Eppure ogni tanto qualcosa si muove dentro di me, qualcosa chiededi essere liberato, e per farlo star cheto compro camicie di Gucci e di D&G, occhiali da sole Ray Ban e Armani, scarpe da 300 Euro… ma questo qualcosa losento laggiù che si agita e non ne vuole sapere di star fermo e in fondo spera ancora in tutte quelle raccomandate, in tutte quelle buste imbottite preparate di notte e portate con ostinazione all’ufficio postale.
Io ce la metto tutta, cerco con tutte le mie forze di reinventarmi nella veste di assicuratore, di escogitare nuovi infallibili metodi per far firmare i contratti ai clienti. Cerco di farmelo piacere a tutti i costi, quel lavoro. Ma sento che c’è qualcosa che non va. Ho la terribile sensazione di perdere tempo, di essere sulla strada sbagliata. So che non è per niente facile guadagnarsi da vivere facendo ciò che si ama, ma non ne posso più di svegliarmi la mattina con quel senso di nausea, chiedendomi se vale la pena di alzarmi lavarmi vestirmi mettermi in macchina e sedermi a una scrivania sommersa dalle scartoffie, fumare una sigaretta alla finestra tra una pratica e l’altra, guardando con nostalgia la gente che passeggia per la strada. A volte fantastico sulla possibilità di ricominciare con tutto l’entusiasmo e con tutta l’incoscienza di quando avevo vent’anni… ma poi comincio a pensare a tutti quelli che deluderei facendo così e preferisco quasi deludere me stesso.
Dov’è il mio coraggio? Dov’è la mia fortuna? Dov’è la speranza che mi prestava le sue ali di farfalla? Tutto svanito. Al loro posto, dubbi, incertezze e paura di sbagliare. Probabilmente lavorare serve a non perdere il contatto con la realtà. Vendere assicurazioni, giornali, aspirapolvere; ingoiare tutta la merda che la gente quotidianamente ingoia: sembra niente ma serve a capire in che razza di mondo viviamo. Come a dire: tutta esperienza.
Eppure, in certe giornate, dove tutto sembra troppo complicato, dove tutto – cielo nubi edifici facce – è un po’ sbiadito, dove è faticoso persino respirare, in quelle giornate io sento che sto perdendo tempo, ecco, io sento che non dovrei essere qui.
È quasi un anno che lavoro alle assicurazioni, come ho detto, quando comincio ad accusare alcuni piccoli problemi di salute: herpes, eczemi sul viso e sul corpo, pressione bassa, giramenti di testa… Addirittura, mi accorgo che sto perdendo una gran quantità di capelli, cosa che non mi è mai accaduta prima d’ora!
Questi problemi di salute si aggravano progressivamente, finché mi obbligano a rimanere assente dal lavoro per un mese. Durante questo mese riprendo a leggere e a scrivere, cose che nell’ultimo anno non ho potuto fare per mancanza di tempo. Mi accade allora, e in modo apparentemente inspiegabile, di guarire completamente da tutti quei malanni, e quasi da un giorno all’altro.
Trascorso il periodo di convalescenza, non me la sento di ricominciare a vendere assicurazioni e decido di tentare nuovamente di diventare scrittore.
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