Il Moretum era in realtà molto diverso dall’Erbazzone che noi conosciamo: consisteva in una sorta di impasto di differenti formaggi, piante commestibili e aromatiche, condito con olio, aglio, sale, aceto, pepe, il tutto pestato in un mortaio fino a raggiungere la consistenza di una crema spalmabile; proprio questo, in effetti, sembra essere stato il suo utilizzo più fortunato, steso come una salsa odorosa e ghiotta su pane e focacce. Questa ipotesi pare confermata da uno dei nomi coi quali l’Erbazzone è conosciuto in dialetto ancora oggi in alcune zone: morazòun, morazzone. Va però detto che la parentela tra queste due preparazioni appare piuttosto tenue, e che la tradizione contadina di tutta Italia vanta torte, salate o dolci, a base di erbe, formaggi, uova e altri ingredienti di ripiego, magari avanzi di altre preparazioni di cucina; la culinaria romana, diffusasi in breve ovunque, era ricca di ricette ottenute schiacciando erbe e ortaggi tra due strati di pani o schiacciate. Mastro Martino nel libro “De arte coquinaria” (1450) e Bartolomeo Sacchi, detto “Il Platina, nel suo “De honesta voluptate” (1475) si riferiscono a queste torte d’erbe come “alla bolognese”.
La prima tesi ci sembra ben più fondata, per un motivo molto semplice: la cucina contadina delle origini è cucina povera, spesso poverissima, specialmente se di montagna, e il Parmigiano –Reggiano, di qualunque tipo, difficilmente ne avrà originariamente fatto parte – tanto più che il Parmigiano – Reggiano è un prodotto della valle. Una cucina tanto povera che dei due strati di pasta nei quali è oggi racchiuso l’Erbazzone, spesso in montagna se ne usa ancor oggi uno solo, quello della base; a volte neppure questo c’era, perché la farina era in passato così preziosa, per la sua rarità, da essere utilizzata – se pure – per fare il pane, anzitutto (pane che, in assenza di frumento, veniva realizzato ripiegando sulle farine di castagne, o di ghiande). Allora, lo Scarpazzone diventava, in assenza di farina, una specie di frittata di uova e formaggio, o una sorta di pizza coi bordi superiori ripiegati verso l’interno a racchiudere il contenuto, cotta non in una padella normale, ma in un söl, apposito stampo di rame per la cottura nel forno a legna.
E’ sempre della montagna l’abitudine, ancora oggi seguita, di aggiungere all’impasto del riso, che proveniva dai pagamenti delle mondine che erano scese a valle durante la stagione della raccolta e ora tornavano alle case, con questa preziosa aggiunta alimentare per le dispense.
Di Carlo Vanni
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